Il mio primo incontro con Mussolini. Ricordi di una matricola fascista. Di Luigi Fontanelli

Lo scritto di Luigi Fontanelli che segue (pubblicato originariamente sul giornale Il lavoro fascista nell’ottobre del 1939 con il titolo Primo incontro con l’uomo solo e poi riproposto due anni dopo nella corposa raccolta Sentimento della rivoluzione, curata dal littore Vittorio Zircone e pubblicata a Roma dall’Unione Editrice Sindacale Italiana) concerne il primo e leggendario incontro fra l’autore, futuro giornalista e pubblicista, e Benito Mussolini. Dato il suo grande valore storico, la Redazione di Ardire ha scelto di pubblicarlo nella sua forma integrale.

Sul finire del 1915, il destino aveva portato mia madre a gestire la vivanderia della Caserma Cavour, a Ferrara. Mio padre, naturalmente interventista, s’era arruolato volontario nei primi giorni di maggio, e mia madre, per mantenere me agli studi e per pagare i debiti dovuti alle troppe e troppo trascurate iniziative di mio padre, non aveva esitato un momento a mettersi – nonostante le sue origini piccolo-borghesi di donna che aveva «sempre portato il cappellino» – dietro al banco della vivanderia, dalla mattina alla sera. Là, in quel tempo, io vidi per la prima volta il bersagliere Mussolini. Avevo iniziato in quell’anno il ginnasio e mia madre mi aveva affidato – Dio solo sa con quanta pena per non potermi tenere sempre vicino – ad una sorella di mio padre. Tutti i pomeriggi io andavo a trovarla. Mi chiedeva, prima di tutto, come stavo, se ero stato interrogato a scuola e tante altre cose; e mi raccontava di sé, del suo lavoro e di mio padre che non le scriveva mai, se non soltanto, ogni settimana, una cartolina in franchigia con su scritto: «Ti abbraccio insieme a Gigi. Viva l’Italia!». Il patriottismo della donna era messo a duro prova e non bastava al suo sentimento di moglie trascurata.

In uno di quei pomeriggi, mia madre mi disse che c’era in caserma il famoso socialista Benito Mussolini, quello che era stato il direttore dell’Avanti!, ma che aveva voluto la guerra e allora aveva litigato coi suoi compagni e si era subito arruolato per il fronte. Mi disse che egli, ogni giorno, nella vivanderia, se ne stava appartato con un altro bersagliere, che doveva essere il suo segretario, il quale andava direttamente in cucina per farsi fare due uova al burro e che spesso si serviva di mio zio Gualtiero – che aiutava mia madre nel lavoro della vivanderia – per mandarlo in via Ghisilieri [via del centro di Ferrara], dove abitava la sua famiglia, arrivata da Milano. Mia madre me lo descriveva insistendo soprattutto sul fatto che aveva degli occhi bellissimi, impressionanti: «Du unciùn négar, bisogna védar com iè grand e com al li mov quand al scor. Na bella testa da om intelligent» [«Due occhioni neri, bisogna vedere come sono grandi e come li muove quando parla. Una bella testa da uomo intelligente»].

Tutti i pomeriggi, appena aveva salutato mia madre, le chiedevo se Mussolini era venuto, se c’era, se potevo vederlo. Non mi riuscì di vederlo che una sola volta, un momento appena. Ma intanto avevo cominciato a leggere Il Popolo d’Italia, quotidiano socialista di Benito Mussolini, ad abbandonarmi beatamente alla prosa di Mussolini, a “sentire” il temperamento di Mussolini. Il contatto spirituale era avvenuto.

Sei anni dopo: 1921. Ero entrato nel Fascio di Ferrara nel novembre del 1920, pochi giorni dopo la sua fondazione, avvenuta in un caffè del centro, che ora è scomparso.

Io ero tollerato come uno di quei ragazzi fastidiosi che erano sempre fra i piedi dei maggiori che avevano fatto la guerra. Ma si era talmente in pochi allora, che anche i ragazzi – le “pastine”, come ci chiamavano – bisognava accettarli tanto per fare numero. Io fui poi aiutato da uno sviluppo fisico precocissimo e dalla conoscenza personale di due dei fondatori del Fascio di Ferrara: Olao Gaggioli e Alberto Montanari. Quest’ultimo, un giorno mi disse: «Ci vuole una bella faccia tosta per venire alle spedizioni coi calzoni corti, pastina! Mettat almen i braghin lung!». E così feci.

Nell’estate del 1921 venni a Roma per poco più di un mese. Me ne stavo tutto il giorno da Aragno, nella “terza saletta” con i camerati del Fascio romano, ove vi era grande consumo di bibite ghiacciate e tutte le edizioni dei giornali man mano che uscivano. Cercavo di assistere alle sedute della Camera, allora tenute in continua agitazione dalla situazione interna del paese, dalle nostre lotte e dalla vivacità dei fascisti entrati a Montecitorio con le elezioni di maggio. Potei assistere a diverse sedute abbastanza movimentate: quella in cui arrivò l’annuncio della strage di Sarzana, e un’altra durante la quale l’atletico Capanni scagliò una poltrona, che serviva agli stenografi, contro il settore dei socialisti. E mi piaceva soprattutto guardare Mussolini, imperturbabile, seduto tutto solo, disinteressarsi completamente di ciò che avveniva, leggere con straordinaria rapidità i giornali, roteare i grandi occhi in alto – evidentemente disturbato – per guardare l’affresco di Sartorio e, di quando in quando, poggiare il mento fortissimo sui pugni serrati l’uno sull’altro e guardare lontano, con tutto il suo spirito, fuori dall’aula “sorda e grigia”. Quando non riuscivo a procurarmi il biglietto per assistere alle sedute, mi mettevo sul portone di piazza Montecitorio per vedere chi entrava; non era detto che all’ultimo momento non ci si potesse procurare un biglietto, e, in ogni caso, si vedevano passare i diversi protagonisti della situazione di allora.

In uno di quei pomeriggi me ne stavo al portone della Camera; la seduta era ormai cominciata da tempo e non c’era più speranza di trovare qualche deputato amico che potesse procurarmi su due piedi un biglietto per la tribuna del pubblico. D’un tratto, vedo comparire sul portone un deputato fascista – Farinacci – che lancia uno sguardo attorno nella piazza; fissa per qualche istante i gruppi che se ne stanno attorno ai tavolini della Gelateria Guardabassi, come a cercare qualcuno, e, infine, scorgendomi vicino col distintivo all’occhiello, mi chiama in disparte e mi dice: «Vai subito da Aragno, vedi di trovare quanti fascisti puoi e fermatevi qui nella piazza. È tornato alla Camera oggi quel buffone di Mingrino con la testa rotta per le legnate prese a Massa Marittima. Dicono che gli Arditi del Popolo, verso le sei, verranno qui per fargli una grande manifestazione di simpatia e che vogliono prendersela con Mussolini. Vai subito e poi venite qui!»

Corsi da Aragno; a quell’ora – dovevano essere le quattro e mezza – anche la “terza saletta” era quasi vuota. Trovai alcuni camerati, la maggior parte giovanissimi, e dissi loro quel che bisognava fare. Andammo a piazza Montecitorio, lasciando detto ai camerieri della “terza saletta” che, man mano che altri fascisti si fossero fatti vedere, bisognava avvertirli che li aspettavamo, per una cosa molto importante, davanti al portone della Camera.

Eravamo una dozzina di giovani o poco più, sotto l’obelisco di piazza Montecitorio, quando, voltandomi all’improvviso, scorsi Mussolini scendere tranquillamente i gradini del portone della Camera in compagnia di uno – forse un giornalista – che oggi non potrei identificare.

«Eccolo, eccolo!», dico, indicandolo ai miei camerati.

«Dove?».

«Quello vestito di scuro, con la paglietta e col bastone, in compagnia di quello alto».

«Ma non è mica Mussolini!», dice uno.

«Vedi quanto sei fesso! …Come puoi non riconoscerlo?! Dici che non è Mussolini proprio a me, che me lo ricordo da quando ero bambino, a Ferrara, durante la guerra, e che l’ho rivisto a Ferrara nell’aprile scorso, dopo il Congresso di Bologna, quando ho parlato alla palazzina Marfisa…».

«Si, si, è lui», dice un altro, un ex combattente, il meno giovane di noi.

Tale conferma, che proviene da uno più vecchio, ci fa trovare immediatamente l’unità. Mussolini ci volta le spalle, procede verso piazza Colonna, lentamente, tranquillissimo, ascoltando la persona che lo accompagna. Giunto all’altezza del colonnato di Veio, svolta a destra, sempre ragionando tranquillamente; noi lo seguiamo ad una decina di passi di distanza. All’improvviso, uno di noi lancia un grido: «Viva Mussolini!». Un altro subito incalza: «Dove sono gli Arditi del Popolo?!».

Mussolini, che è giunto a metà della piazza, proprio di fronte al portone di palazzo Wedekind, si ferma, si volta e ci guarda, e poi si rivolge a chi lo accompagna: «Che cosa vogliono?».

Il suo interlocutore – giornalista o deputato che fosse – deve essere stato al corrente della voce che si era sparsa nei corridoi della Camera e deve avergli detto la ragione per la quale noi lo seguivamo. Mussolini sorride e ci viene incontro. Gli siamo tutti attorno.

«Che volete?», ci chiede sorridendo affabilmente.

«Ci hanno detto che si prepara una manifestazione contro di voi…».

«So, so la ragione per cui siete qui», Mussolini mi interrompe, battendomi due o tre volte la mano sulla spalla. «E vi ringrazio, perché vedo che siete degli amici. Ma io sono abituato a camminare solo e non ci sono manifestazioni ostili che tengano; me ne andrò sempre solo. Vi ringrazio e vi saluto. Ma per me state tranquilli».

Il tono era pacato, umanissimo, ma perentorio.

Nessuno di noi poté pensare un solo istante che gli si potesse disobbedire.

Così, immobili, lo vedemmo allontanarsi lentamente e voltarsi indietro per salutarci con un largo sorriso. Dentro di me tumultuavano le parole, scandite da lui: SONO ABITUATO A CAMMINARE SOLO E ANDRÒ SEMPRE SOLO.


Di Luigi Fontanelli

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