Erdogan e la “liberazione” di Gerusalemme. Ad Hamas armi e denaro da Ankara, ma non solo

Dinanzi all’impassibilità dell’Unione Europea e degli Stati Uniti d’America, da sempre vicini alla causa sionista e favorevoli all’espansione di Israele, gli sgomberi forzati a Gerusalemme Est e i raid israeliani sulla Striscia di Gaza sembrano finalmente placarsi, anche se Amnesty International ha già parlato di «violazioni del diritto internazionale che possono costituire crimini di guerra».

Tuttavia, mentre il movimento islamico di resistenza Hamas, dopo undici giorni di guerra e centinaia di morti e feriti (tra cui molti civili, donne e bambini), ha annunciato il “cessate il fuoco”, in pochi hanno preso le difese del popolo palestinese, il quale è stato definito da Moni Ovadia «il popolo più solo, più abbandonato che ci sia sulla terra».

Difatti, non sono molti i paesi che, in Occidente, si sono espressi a favore della Palestina. Malgrado le esplicite (seppur ipocrite) condanne dell’ONU, la reazione più dura e immediata contro Israele è giunta dalla Turchia di Recep Tayyp Erdogan, il quale, fin da subito, ha severamente condannato gli attacchi di Israele, definito «uno Stato terroristico», e ribadito il suo sostegno alla causa palestinese, espellendo – seppur temporaneamente – l’ambasciatore israeliano Eitan Naeh.

«Non avalleremo la violenza di Israele contro il popolo palestinese, mentre il mondo si gira dall’altra parte», ha dichiarato il presidente turco. «È dovere di tutta l’umanità schierarsi contro gli attacchi israeliani a Gaza e Gerusalemme. […] Chi rimane in silenzio o appoggia questa violenza sappia che un giorno ne potrebbe essere vittima. Stati e istituzioni devono intervenire per fermare questo massacro».


«Liberare Gerusalemme»

Ma Erdogan, animato probabilmente dal proposito di costituire un grande “Esercito dell’Islam” in grado di «liberare Gerusalemme» dal potere israeliano, si è spinto oltre, chiamando al telefono gran parte dei leader islamici per mobilitare i loro paesi contro Israele e, quindi, a favore del popolo palestinese. Fra le varie personalità del mondo islamico con cui Erdogan ha parlato, oltre che il Presidente palestinese, Abu Mazen, e il capo di Hamas, Ismail Haniyeh, si possono citare: il Presidente dell’Iran, Hassan Rouhani; il Presidente del Kirghizistan, Sadyr Japarov; il Presidente dell’Afganistan, Ashraf Ghani; il Primo Ministro dell’Iraq, Mustafa Al-Kadhimi; il Primo Ministro della Libia, Abdul Hamid Dbeibeh; il Presidente della Nigeria, Muhammadu Buhari; l’ex Primo Ministro della Malesia, Mahathir Mohamad.

Nei colloqui telefonici, il presidente turco «ha sottolineato l’importanza di intraprendere un’azione congiunta», affermando che «la Turchia farà tutto ciò che è in suo potere per mobilitare il mondo intero, e soprattutto il mondo islamico, per fermare il terrorismo e l’occupazione di Israele [in Palestina]». Ciò convergerebbe – almeno in parte – con un recente e misterioso progetto del SADAT (agenzia di consulenza militare turca vicina ad Ankara, definita “l’esercito ombra di Erdogan”), di cui non si sa molto in Occidente, ma che il giornalista Emanuel Pietrobon, in un articolo pubblicato su Inside Over, è riuscito a sintetizzare in maniera chiara ed esaustiva:

Uno dei progetti più ambiziosi proposti e sponsorizzati dall’ente [SADAT] è, senza dubbio, il cosiddetto “Esercito dell’Islam”. Si tratterebbe di amalgamare le forze armate dei 57 paesi membri dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica (OIC) sotto un’unica bandiera, possibilmente turca, per dare vita al più corposo esercito del globo: 5.206.100 soldati all’attivo. Tale esercito servirebbe un unico scopo: fungere da deterrente contro l’imperialismo occidentale nel mondo islamico ed essere pronto e preparato alla “guerra totale” qualora necessario. Sadat ha curato il piano nei minimi dettagli, realizzando anche un’analisi di scenario inerente un conflitto fra l’Esercito dell’islam e Israele. L’analisi prevede un attacco su larghissima scala in stile guerra lampo (blitzkrieg) che, si stima, dovrebbe assicurare una rapida vittoria in una settimana. A quel punto, con Israele completamente sottomesso, il blocco islamico turco-centrico potrebbe trasformarsi in un “polo di potere” capace di rivaleggiare con l’Occidente e creare un nuovo ordine internazionale.

Tale progetto, contrariamente a quanto si possa pensare oggi, non rappresenta un’utopia, ma uno dei postulati ideali della nuova geopolitica neo-ottomana di Ankara. E non è un caso che, durante una recente riunione d’emergenza, gli Stati membri dell’OIC – facendo eco alla proposta di Recep Erdogan concernente la formazione di un «meccanismo di protezione internazionale» per il popolo palestinese – abbiano ribadito più volte la loro condanna verso le azioni di Israele a Gerusalemme Est e sulla Striscia di Gaza, proponendo addirittura «di imporre un boicottaggio alle merci israeliane». Scriveva qualche tempo fa il quotidiano turco filo-governativo Yeni Safak:

L’Organizzazione della Cooperazione Islamica (OIC) è la seconda più grande organizzazione intergovernativa dopo le Nazioni Unite, con 57 Stati membri in quattro continenti. Essa è la voce collettiva del mondo musulmano e può firmare sanzioni militari ed economiche. Se gli stati membri dell’OIC si uniranno militarmente formeranno l’esercito più grande e completo del mondo. Il numero di soldati attivi sarebbe di almeno 5.206.100, mentre il budget della difesa raggiungerebbe circa 175 miliardi. In confronto, dinanzi a questo esercito musulmano unificato, Israele verrebbe ridimensionato. La popolazione di Israele, che occupa la Palestina, è di 8.547 milioni. La popolazione di Istanbul, da sola, supera i 14 milioni. Ci sono 160.000 soldati attivi nelle forze israeliane e il loro budget per la difesa è di 15,6 miliardi di dollari. […] L’istituzione di un esercito musulmano garantirebbe l’accerchiamento militare di Israele.

E ancora:

Si prevede che 250.000 soldati parteciperanno alla prima fase di una possibile futura operazione. Saranno utilizzate basi terrestri, aeree e navali degli Stati membri situate nelle regioni più critiche. Le basi congiunte saranno costruite in un breve periodo di tempo. Le rotte a stretto contatto possono essere formate da basi terrestri vicino a Israele. Ci sono anche basi aeree dove possono radunarsi gli aerei che viaggiano da regioni lontane. Israele potrebbe anche incontrare molte navi provenienti dal Mediterraneo e dal Mar Rosso. È possibile mobilitare rapidamente 500 carri armati e veicoli corazzati, 100 aerei e 500 elicotteri d’attacco e 50 navi. La Turchia può svolgere un ruolo importante come centro operativo. […] Il presidente Recep Tayyip Erdoğan […] ha lanciato un messaggio chiaro riguardo a Gerusalemme. «Chi pensa che Gerusalemme oggi appartenga a loro [agli israeliani] non sarà in grado di trovare un albero dietro cui nascondersi domani», ha detto Erdogan.

La presenza del SADAT in Palestina, tuttavia, è stata già comprovata da una recente indagine, la quale ha rivelato «che alti funzionari del governo turco stanno contribuendo alla formazione militare di Hamas attraverso il SADAT, che utilizza fondi e armi per creare un “esercito palestinese” per combattere contro Israele». Pertanto, sorge spontanea una domanda: l’esercito palestinese immaginato dal SADAT rappresenta la prima fase della battaglia di Erdogan per “liberare” Gerusalemme?

Difficile dirlo. La cosa certa è che la resistenza di Hamas, benchè supportata dalla Turchia e, in misura minore, dall’Iran (che preferisce invece il gruppo Jihad Islamica), ha recentemente sùbito gravi perdite, non riuscendo a tenere testa al potente e ben addestrato esercito israeliano, il quale – il 5 maggio scorso – ha acquistato armi dagli Stati Uniti pari ad un valore di 735 milioni di dollari – motivo per cui Erdogan, rivolgendosi al Presidente americano Joe Biden, avrebbe dichiarato: «Stai scrivendo la storia con le tue mani sporche di sangue».


Aiuti umanitari

Ma la Turchia, che ha cominciato a intrattenere rapporti stretti con la resistenza islamica di Hamas dal novembre 2002, ossia dall’entrata in carica del Partito Giustizia e Sviluppo (AKP), non supporta i palestinesi solamente in ottica militare, ma anche e soprattutto con progetti umanitari, mediante ONG e organizzazioni che operano sul territorio.

Fra le ONG più attive finanziate dal governo di Ankara vi è l’IHH, considerata la sezione turca del movimento saudita “Unione di Dio”, la quale opera in Palestina (e nei paesi limitrofi) da ben venticinque anni, impegnandosi soprattutto nel supporto ai rifugiati e alle famiglie in difficoltà.  Secondo il sito dell’organizzazione, l’IHH avrebbe aiutato negli ultimi mesi circa 15.000 rifugiati palestinesi e oltre 1.000 famiglie indigenti (alle quali sarebbero stati consegnati pacchetti contenenti generi alimentari e 40.000 litri di carburante per il riscaldamento), oltre ad aver aperto una clinica sanitaria nel campo profughi di Burj al-Barajna, a Beirut, in Libano.

Un’altra ONG di origini turche molto attiva in Palestina è la TIKA, che, solamente durante l’ultimo Ramadan, avrebbe distribuito migliaia di pacchetti contenenti generi alimentari a famiglie bisognose e disagiate in Cisgiordania, a Gerusalemme Est e nella Striscia di Gaza, guadagnandosi l’appellativo di «brand più importante della Turchia». La TIKA, oltre ad aver finanziato – dal 2005 ad oggi – decine di progetti umanitari in tutta la Palestina, è anche la principale finanziatrice dell’Ospedale dell’Amicizia Palestina-Turchia, con sede nella Striscia di Gaza, il quale – costato 62 milioni di dollari e dotato di 4 sale operatorie e 180 stanze – starebbe svolgendo «un ruolo di primaria importanza nella lotta contro la pandemia di Covid-19». A tal proposito, un portavoce di Hamas ha dichiarato:

Vorrei ringraziare i miei fratelli e sorelle in Turchia per aver costruito questo ospedale completamente attrezzato, che ci consente di trattare i pazienti malati di Covid-19. Questo ospedale ha ridotto il peso della crisi della pandemia sulla popolazione di Gaza. Vorrei cogliere l’occasione per esprimere ancora una volta la mia gratitudine al governo e al popolo turco.

Un’altra organizzazione importante che opera in Palestina è la Mezzaluna Rossa Turca, presente sul territorio dal 1995. Essa, con un ufficio a Gerusalemme e uno nella Striscia di Gaza, fornisce aiuti umanitari nel settore alimentare e igienico-sanitario, realizzando anche opere infrastrutturali e altri progetti specifici di sviluppo. Per soddisfare le esigenze mediche di emergenza dei palestinesi feriti durante gli ultimi attacchi a Gerusalemme Est e sulla Striscia di Gaza, i gruppi di volontari della Mezzaluna Rossa Turca avrebbero fornito materiale ospedaliero alla Mezzaluna Rossa Palestinese pari a 50.000 dollari, tra cui due veicoli per il trasporto dei feriti. Inoltre, nelle ultime settimane, sarebbero stati distribuiti nella Striscia di Gaza 20.000 pacchetti contenenti generi alimentari e materiale ospedaliero dal valore di 33.500 dollari.

E mentre gli Stati Uniti, da sempre vicini a Israele e al sionismo militante, hanno recentemente annunciato di aver bloccato i fondi all’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione dei Rifugiati Palestinesi nel Vicino Oriente (UNRWA), altre ONG e organizzazioni umanitarie turche, molte delle quali finanziate dal governo di Ankara, si stanno mobilitando per aiutare il popolo palestinese – considerato da sempre vittima di Israele. Fra di esse, come riporta il sito dell’IHH, figurano: Public Servants Trade Unions, Hak-İş Trade Union Confederation, Turkish Diyanet Foundation, Aziz Mahmut Hüdayi Foundation, Sadakataşı Foundation, Technical Employees Association, Beşir Foundation, Deniz Feneri, Hayrat Humanitarian Aid Association, Fetih Der, Umut Ol Association, Association of International Doctors, Orphans Foundation, International Associations for Refugee Rights, Health and Civilization Association, Darüleytam Association, International Association for Water Wells, Cihannüma Association.


Per concludere

Alla luce di quanto appena detto, è bizzarro che vi siano ancora molti giornali (italiani e stranieri) che, permeati da un antiquato anti-turchismo ideologico (seppur a volte del tutto legittimo e giustificato), non riconoscono alla Turchia di Erdogan nessun merito verso la Palestina e il popolo palestinese. Primo su tutti, L’Antidiplomatico, che, qualche giorno fa, ha rilasciato in proposito parole alquanto scandalose e menzognere, che meritano senza dubbio di essere riportate:

La Turchia [in seguito agli attacchi israeliani a Gerusalemme Est e sulla Striscia di Gaza] è stata uno di quei paesi a fare la voce grossa attraverso il presidente Erdogan. Solo parole forti, ma nessun atto concreto.

Nessun atto concreto?! In realtà, la Turchia di Erdogan – come abbiamo dimostrato in questo breve articolo – è l’unico paese al mondo che, attraverso fatti e azioni concrete, si sta impegnando a supportare – non solo con le armi, ma anche con assidui aiuti umanitari – l’intero popolo palestinese, denunciando duramente il sionismo e le politiche espansionistiche ad esso connesse, le quali violano il diritto internazionale e la pacifica convivenza fra popoli.

Pertanto, l’Occidente, e in particolare l’Italia, dovrebbe smettere di considerare Hamas, che rappresenta il primo partito del Consiglio Legislativo Palestinese con 74 seggi, un gruppo terroristico di assassini spietati, e cominciare a dialogare con esso, per raggiungere finalmente una pace duratura, che, a causa di Israele e dei suoi ricchi alleati occidentali, manca ormai da decenni.

Per concludere, al fine di comprendere i complicati rapporti fra Israele e Palestina, risulta doveroso riportare le preziose e coraggiosissime parole di Moni Ovadia, le quali – alla luce degli ultimi attacchi Israeliani a Gerusalemme Est e sulla Striscia di Gaza – acquisiscono un valore inestimabile, quasi fossero lampi a ciel sereno:

La politica di questo governo israeliano è il peggio del peggio. Non ha giustificazioni, è infame e senza pari. Vogliono cacciare i palestinesi […]. E’ una vessazione ininterrotta che ogni tanto fa esplodere la protesta dei palestinesi, che sono soverchiamente le vittime, perché poi muoiono loro, vengono massacrati loro. […] La politica di Israele è segregazionista, razzista, colonialista. E la comunità internazionale è di una parzialità ripugnante. Tranne qualche rara eccezione, paesi come la Svezia e qualche paese sudamericano, non si ha lo sguardo per vedere che la condizione del popolo palestinese è quella del popolo più solo, più abbandonato che ci sia sulla terra, perché tutti cedono al ricatto della strumentalizzazione infame della Shoah. […] Tutto questo con lo sterminio degli ebrei [del 1941-45] non c’entra niente, è pura strumentalizzazione. Oggi Israele è uno stato potentissimo, armatissimo, che ha per alleati i paesi più potenti della terra e che appena fa una piccola protesta tutti i Paesi si prostrano, a partire dalla Germania, con i suoi terrificanti sensi di colpa. […] Io sono ebreo, anch’io vengo da quel popolo. Ma la risposta all’orrore dello sterminio invece che quella di cercare la pace, la convivenza, l’accoglienza reciproca, è questa? Dove porta tutto questo? Il popolo palestinese esiste, che piaccia o non piaccia a Netanyahu. C’è una gente [i palestinesi] che ha diritto ad avere la propria terra e la propria dignità, e i bambini hanno diritto ad avere il loro futuro, e invece sono trattati come nemici. […] Ci sono israeliani coraggiosi che parlano, denunciano. Ma la comunità internazionale no… Ci dovrebbe essere una posizione ferma, un boicottaggio, a cominciare dalle merci che gli israeliani producono in territori che non sono loro. […] Io non sono sul foglio paga di nessuno, rappresento me stesso e mi batto contro qualsiasi forma di oppressione, è il mio piccolo magistero. Sono con tutti quelli che patiscono soprusi […], e questo me l’ha insegnato proprio la storia degli ebrei. Io sono molto ebreo, ma non sono per niente sionista.


Di Javier André Ziosi e Samuel Mandel

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