Il tesoro dei vinti. Mussolini e il mistero dell’oro di Dongo. Tutta la verità

Un furto spettacolare, varie morti “sospette”, una caccia al tesoro ancora in corso fatta di colpi di scena, polemiche e accuse che si trascinano da quasi settant’anni.

Sembrerebbe la sceneggiatura di una spy story, invece è la fotografia di quanto accadde a Dongo, sul lago di Como, teatro dell’assalto partigiano alla colonna Mussolini, nel corso del quale furono saccheggiati denaro, oggetti preziosi e, soprattutto, il famoso oro che tanto ha sollecitato la curiosità degli storici e la fantasia dei romanzieri.

Raccontano le cronache che venerdì 27 aprile 1945 un’Alfa Romeo rossa con a bordo sei valigie viaggiasse lungo la strada occidentale del lago. Alla guida c’era il segretario del Duce, Luigi Gatti, e accanto a lui il suo assistente, Mario Nudi.

Il plotone tedesco guidato da Hans Fallmeyer, che scortava i fascisti in fuga dall’Italia (Mussolini, proveniente da Milano, voleva raggiungere la Svizzera), si componeva di 200 uomini, 100 camion, cannoncini antiaerei, mitra, mitragliatrici, bombe a mano. Insomma, un arsenale poderoso che gli avrebbe consentito di resistere per giorni a uno scontro a fuoco canonico, in campo aperto. Eppure, bastò un innocuo tronco d’albero messo di traverso sulla careggiata a bloccare la carovana. In un batter d’occhio si materializzarono i partigiani della 52ª Brigata Garibaldi, comandata da “Pedro”, il conte Pierluigi Bellini Delle Stelle, e si scatenò l’inferno.

Spari, urla, fumo; i partigiani si avventarono come falchi sulla preda, colpendo la testa e la coda della colonna, molto distanti fra loro. Un’azione fulminea che seminò prontamente il panico tra gli aggrediti.

La loro reazione fu blanda e, senza una regia che ne scandisse i tempi, si rivelò del tutto inutile. Presto capirono che non c’era nulla da fare.

Soltanto un autoblindo che trasportava alcuni gerarchi oppose un minimo di resistenza, che, però, venne fiaccata subito a colpi di bombe a mano. Alla fine anch’essa fu spogliata di tutte le cose di valore che trasportava. Mussolini fu riconosciuto e arrestato, mentre i gerarchi vennero fucilati nella piazza di Dongo.

Sull’entità dei beni effettivamente trasportati (e razziati) e sulla loro destinazione finale ci sono stati e ci sono tuttora scontri furibondi tra gli storici. Attorno all’oro, in particolare, sono nate dicerie e leggende mai confermate, ma neanche smentite.

«I buchi neri sono tanti, è vero», commenta Roberto Festorazzi, giornalista esperto dei fatti di Dongo, sui cui ha scritto numerosi libri. «Ma è stato dimostrato che almeno 35 chilogrammi di oro e 30milioni di lire siano stati incamerati dal partito comunista. I valori che viaggiavano con Mussolini, va chiarito, non rappresentavano solo l’erario dello Stato, frutto dei prelevamenti fatti dalle banche. C’erano anche beni personali dei gerarchi e delle loro famiglie». Non quelli del Duce, però, che li aveva lasciati prudentemente altrove e con sè aveva soprattutto carte e documenti. Le vicende successive dimostreranno che quegli scritti, in realtà, valevano infinitamente di più di qualunque lingotto o tesoretto, ma questa è un’altra storia. Rimaniamo sull’oro.

«A causa della svalutazione della lira, la Repubblica Sociale Italiana già da tempo aveva iniziato a vendere moneta per comprare il metallo prezioso. Le gioiellerie erano state letteralmente prese d’assalto dal governo», continua Festorazzi.

In cassa lo Stato aveva dunque una dotazione finanziaria cospicua; «si calcola che fossero alcuni miliardi delle vecchie lire». Se i numeri dell’assalto di Dongo sono gli unici confermati (da testimonianze, interrogatori e documenti), si intuisce che la grandissima parte del tesoro della RSI non è mai stata trovata. Cosa più sconfortante è che nessuno sappia da dove iniziare la ricerca, perché misteriosamente «non esistono tracce bancarie che possano venire in aiuto».

«Nelle mie indagini mi sono imbattuto in una cosa singolare. Mi hanno detto che a Musso esiste una zona chiamata proprio “Quartiere dell’oro di Dongo”, perché si dice che tutte le case che ne fanno parte siano state costruite con i proventi della famosa azione partigiana». Purtroppo nessuno è in grado di provarlo con certezza, ma è storia nota che più di una famiglia del posto abbia fondato il proprio benessere e abbia potuto tirar su palazzine e villette signorili grazie alla manna piovutagli addosso dalle casse del Fascio. Addirittura – ed è l’ultima chicca che Festorazzi ci regala, proveniente dalle sue ricerche più recenti – persino alcuni alberghi di Rimini sarebbero stati acquistati per grazia ricevuta…

Quel che è certo è che i gerarchi, evidentemente sfiduciati e terrorizzati all’idea di venire depredati, avevano affidato fiduciariamente ad alcuni abitanti del comasco i loro averi: denaro e oro. Con il patto che questi avrebbero restituito tutto quando le acque si fossero calmate.

Molti, però, furono catturati e fucilati e chi ne aveva in carico i beni, diciamo così, non si sarebbe proprio affannato a individuare i legittimi eredi.

E i partigiani coinvolti? Su di loro pesano giudizi contrastanti. Eroi, giustizieri, ladri, assassini, l’arco costituzionale degli aggettivi è stato perfettamente coperto nei settant’anni che ci separano da quegli accadimenti.

Dopo l’assalto ci fu un poderoso scontro interno tra il segretario del Partito comunista clandestino di Como, Dante Gorreri, che sosteneva che i beni razziati appartenessero al partito, appunto, e il capitano “Neri”, al secolo Luigi Canali (un passato da tenente nel Genio, per cui aveva preso parte alla guerra d’Etiopia e alla campagna di Russia), che invece sosteneva l’esatto contrario: ogni cosa era di proprietà dello Stato italiano e, dunque, andava riconsegnata alla Banca d’Italia.

Fatto sta che nel tardi pomeriggio del 28 aprile il tesoro sarebbe stato trasportato a Dòmaso, in una villa. All’alba del giorno dopo un gruppo di partigiani sarebbe andato a prelevarlo, avrebbe messo tutto su un’auto e poi sarebbe sparito.

Il 17 gennaio 1949, poi, la rivista americana Life avanzò la prima ipotesi che, naturalmente, non mancò di stuzzicare i cospirazionisti. Attraverso un’inchiesta firmata John Kobler, giornalista ed ex appartenente all’OSS (come si chiamava all’epoca il servizio segreto statunitense), dal titolo inequivocabile, The great Dongo’s robbery, il PCI venne accusato di aver incamerato oro e valori per finanziare le due campagne elettorali del 1946 e del 1948 e investire il resto nel mattone, acquisendo case a palazzi a Roma.

Nel frattempo, a intorpidire ulteriormente le acque contribuì una lunga scia di morti apparentemente inspiegabili, ma, col senno di poi, collegate o collegabili fra loro.

Primi a cadere, per mano ignota, furono proprio “Neri” e la sua fidanzata, Giuseppina “Gianna” Tuissi.

Il 7 gennaio 1945 furono arrestati dai fascisti a Lazzeno, poi “Neri” riuscì a scappare e “Gianna” venne rilasciata. Più o meno nel periodo della loro detenzione altri partigiani furono catturati e i due amanti vennero accusati di aver fatto la spia. Non era vero.

In seguito la coppia rientrò tra le file partigiane e, anzi, le venne affidato un compito delicatissimo, contabilizzare oro e denaro presi a Mussolini. Il 27 o 28 aprile l’inventario fu concluso. Il 4 maggio “Neri” incontrò Gorreri e vi si scontrò verbalmente e poi… scomparve per sempre. Il suo corpo non fu mai trovato.

Due mesi dopo, il 4 luglio, venne rinvenuto il cadavere di Anna Bianchi, amica intima di “Gianna”, uccisa con due pallottole alla nuca e gettata ancora viva nel lago. Il 6 luglio scomparve Michele Bianchi, padre di Anna. Poi cade per mano di assassini la stessa “Gianna” e, il 26 ottobre 1945, venne pugnalato a morte in strada, alla periferia di Como, Gaetano Melker, di nazionalità svizzera. Era colui che aveva trasportato in sacchi di juta il tesoro di Dongo dalla federazione del Partito comunista di Como a quella del PCI di Milano.

Davvero troppe morti. Anche a voler essere ottimisti non si può pensare ad una mera casualità.



Alla fine arrivò il processo a carico dei partigiani, molti anni dopo.

Si celebrò nel 1957, a Padova. Vi parteciparono «37 imputati, 300 testimoni, 50 parti offese, decine di giornalisti italiani e stranieri. I principali giornali italiani erano presenti con corrispondenti speciali: La Stampa, Il Corriere della Sera, Il Giorno, Il Messaggero, Il Tempo, L’Unità, Il Gazzettino e altri. La stampa estera era rappresentata da Life, dal Time, dall’Associated Press, dalla Reuter, dal New Chronicle, da France Soir, da Le Monde. Le accuse di furto ai danni dello Stato e di omicidio erano di per sè gravissime».

Così descrive la scena il Centro Studi “Ettore Luccini” di Padova, che ha conservato ampia memoria documentale di quel processo.

Alla sbarra sfilarono, tra gli altri, “Guglielmo”, cioè Dante Gorreri, deputato del PCI di Parma e, come detto, dirigente del PCI di Como, “Fabio”, cioè Pietro Vergani, senatore del PCI di Padova, già ispettore generale delle Brigate Garibaldi in Lombardia, “Pietro”, al secolo Michele Moretti, commissario politico della 52ª Brigata Garibaldi, nonché esecutore del Duce, “Bill”, Urbano Lazzaro, colui che identificò e arrestò Mussolini travestito da soldato tedesco, “Lino”, Siro Rosi, comandante partigiano, Maurizio Bernasconi, Luigi Venettozzi e altri.

«Di fronte alle domande incalzanti del Pubblico Ministero, che, senza giri di parole, vuol sapere dove siano finiti oro e soldi presi a Dongo, il generale Cadorna, comandante del Corpo Volontari della Libertà, e l’onorevole Enrico Mattei, democristiano, punta di diamante dello Stato nel settore dell’industria petrolifera, nonché Ministro del Tesoro del Fronte di Liberazione, dichiararono che “i soldi servirono per la smobilitazione dei partigiani”», interviene ancora Festorazzi.

Può sembrare una scusa, ma se si calcola che i resistenti erano centinaia di migliaia e che furono mantenuti per almeno due mesi dopo la Liberazione, e che in più, a ognuno di loro, venne riconosciuto un premio di 5.000 lire, ci si rende conto di quanto alte fossero state effettivamente le spese.

A quel punto del processo partì una campagna di stampa (amica) tesa a dimostrare come fosse paradossale che i partigiani venissero accusati dello stesso reato contestato a Mussolini e ai suoi gerarchi, che, di fatto, avevano rubato beni dello Stato per portarli in Svizzera.

I partigiani della 52ª Brigata, in definitiva, avevano fermato la corsa dei fascisti a Dongo e ne avevano “sequestrato” il tesoro. Ma se i fascisti avevano usufruito di amnistia, con sentenza della Corte di Cassazione datata 21 ottobre 1956, perchè i partigiani doveva andare alla sbarra?

Non ci fu neanche il tempo di ragionare sulla fondatezza o meno dell’eccezione, perché il processo subì un improvviso e decisivo stop. Nel mese di agosto, Silvio Aldrighetti, uno dei giudici popolari che componevano la Corte, si uccise. Pare fosse sofferente di depressione, e l’impegno gravoso che sentiva su di sè per il solo fatto di far parte della giuria dovette opprimerlo fino a schiacciarlo.

La Corte, dunque, si ritrovò un giudice in meno e non avendo come rimpiazzarlo dovette chiudere i battenti. Entro la fine del 1972, con il provvedimento ad personam per Gorreri, tutti gli imputati di Dongo furono amnistiati.

Il resto è storia e cronaca recente più o meno colorata.

All’inizio degli anni 2000, una signora, Maria Rosa Busi, veggente per vocazione, pretese di guidare degli scavi al Vittoriale degli Italiani di Gardone Riviera, in provincia di Brescia, per cercare il famoso “tesoro del Duce”, che lei sosteneva di aver intercettato in una sua visione.

Le operazioni di sterro andarono avanti per settimane, con il consenso delle istituzioni locali e tra lo scetticismo, poi risultato giustificato, della popolazione e della stampa.

Alla fine, ancora una volta, nulla di fatto. «Mi hanno fermato. Non mi hanno lasciato concludere il mio lavoro. Il tesoro di Dongo è ancora là. Lo sento. Aspetta solo di essere trovato», urlò disperata la signora Busi, ma nessuno le ha mai più creduto.

Più di mezzo secolo prima, un giornalista de Il Tempo, Duilio Susmel, scrisse al presidente della Corte dove si teneva il processo che due valigie cariche di preziosi erano state gettate nel lago di Como. La notizia veniva da Otto Kismat, comandante del servizio di sicurezza personale di Mussolini. Doveva andare con lui anche al bagno, se necessario. Il 27 aprile 1945, secondo la ricostruzione dei fatti, Kismat avrebbe personalmente gettato in acqua le due valigie per non farle prendere dai partigiani.

Ieri come oggi, dunque, l’oro rimane una chimera irraggiungibile, come il Sacro Graal o la Lancia di Longino. Destinato ad alimentare la fantasia di qualcuno e i dubbi della Storia.


Di Marco Merola (da: Mussolini segreto)

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