Il lato oscuro del “Che”. Vita, imprese e morte del guerrigliero Ernesto Guevara

«Procedere all’eliminazione de signor Guevara». Il colonello Joaquìn Zenteno Anaya ricevette il messaggio dall’alto comando boliviano di La Paz intorno a mezzogiorno. Gli americani avevano fatto sapere di volere il guerrigliero argentino vivo e che un’aereo era pronto a spostarlo a Panama, dove sarebbe stato sottoposto a un primo interrogatorio. Ma l’ordine arrivava direttamente dal presidente della Bolivia, René Barrientos, ed entro le ore 14 il cadavere doveva essere pronto per essere trasportato in elicottero dal villaggio di La Higuera al paese di Vallegrande.

A incaricarsi dell’esecuzione si offrì Mario Téran, un sergente che aveva perso un amico nel combattimento avvenuto il giorno prima contro i “cubani”. Anaya ordinò a Téran di non sparare al volto per il riconoscimento. E di mirare in modo che le ferite sembrassero provocate da un combattimento. I primi colpi arrivarono alle braccia e alle gambe di Guevara, che poi, mentre si contorceva mordendosi un polso per non gridare di dolore, ricevette una seconda scarica di proiettili, uno dei quali perforò i polmoni riempiendoli di sangue. Erano le ore 13,45 del 9 ottobre 1967. All’età di 39 anni moriva il comandante Ernesto Guevara, e nasceva il mito.


Un solo popolo

La sua leggenda ha coinvolto a ritroso tutta l’esistenza del Che, fin dal giorno stesso della sua nascita.

Quando il piccolo Ernesto si trovava in fasce, sua madre, Celia de la Sernia, consultò una astrologa, che si espresse sulla base di un certificato che denunciava la nascita del piccolo Ernesto per il 14 giugno 1928. Il responso era impietoso: il neonato avrebbe avuto un’esistenza opaca, frutto di una personalità grigia e insignificante. «Devo svelarti un segreto, mia cara», disse ridendo la signora Celia. «Un segreto che manderà all’aria i tuoi nefasti presagi. Mio figlio è nato un mese prima». Non apparteneva, perciò, al segno dei gemelli, ma a quello del tenace e combattivo Toro.

Quando si era sposata, Celia era già incita: per questo si era spostata con il consorte da Buenos Aires a Rosario, dove il bambino era poi nato. Il giorno del parto, un medico amico di suo marito si era prestato a falsificare il certificato di nascita.

Ernesto fu il primogenito dei cinque figli di Ernesto Rafael Guevara Lynch, un imprenditore argentino di origini basche e irlandesi, e Celia de la Serna, appartenente ad una ricca famiglia di origini spagnole.

Fin da ragazzino fu colpito da una forma asmatica che lo accompagnò per tutta la vita. Anche per questo la sua famiglia incoraggiò la sua passione per uno sport molto fisico come il rugby. Più tranquilla era invece la passione per gli scacchi, di cui divenne un maestro, fino a vincere i primi tornei già all’età di dodici anni.

Altro amore giovanile fu quello per i libri: dalle poesia di Neruda ai romanzi di Jack London, passando per i trattati filosofici di Bertrand Russel e i saggi di Sigmund Freud. Quando incontrò la figura di Gandhi, pur restandone affascinato, contestò l’idea che si potesse compiere una rivoluzione senza ricorrere alla violenza. O, perlomeno, non lì, in America Latina.

Mentre si avvicinava anche alla fotografia, nasceva in lui la convinzione che solo una lotta armata avrebbe potuto abbattere i regimi autoritari che affliggevano il continente sudamericano, i cui Stati erano per lui solo disegni sulla carta geografica. «C’è un solo, unico popolo in America Latina».


I diari della motocicletta

L’iscrizione di Guevara alla facoltà di medicina derivò dal desiderio di «diventare un famoso ricercatore», come raccontò lui stesso. «Sognavo di trovare qualcosa che potesse essere messo una volta per tutte a disposizione dell’umanità».

Nel 1951, lui e il suo amico Alberto Granado decisero di prendersi un anno sabatico dagli studi e attraversarono l’America Latina a cavalcioni de “La Poderosa”, la moto Norton 500 di Granado. Un’esperienza raccontata dal Che nel libro Latinoamericana, un diario per un viaggio in motocicletta. Fu in questa occasione che il giovane studente argentino si convinse della necessità di una rivoluzione capace di riscattare le condizioni miserabili in cui versava buona parte della popolazione sudamericana.

Deciso a intervenire attivamente per cambiare l’ordine delle cose, a gettarsi cioè nella lotta politica, terminò in fretta gli studi universitari, laureandosi in medicina nel 1953. Subito dopo ripartì per raggiungere quasi tutti gli Stati dell’America Latina, e in Guatemala incontrò la socialista Hilda Gadea, destinata a diventare la sua prima moglie.

Hilda apparteneva all’APRA (Alianza Popular Revolucionaria Americana), un movimento politico guidato da Victor Raùl Haya de la Torre, il rivoluzionario peruviano che avversava sia l’imperialismo statunitense, sia il totalitarismo sovietico, promulgando una società che si basasse sui valori democratici universali, anche se nel futuro avrebbe assunto posizioni sempre più vicine alla destra liberista.

Ma l’incontro che cambiò la vita di Guevara fu quello con Fidel Castro. Alla fine di un’intera nottata passata a discutere, il Che – come ormai veniva chiamato per quel suo tipico intercalare argentino – si convinse che quello era l’uomo giusto per la rivoluzione.


Luci e ombre

Il 26 luglio 1953, un comando militare guidato da Fidel Castro attaccò la Caserma Moncada, la più importante di Cuba, dando di fatto inizio a quella che sarebbe passata alla storia come la Rivoluzione cubana.

Nonostante il fallimento dell’azione, il Movimento che ne derivò, e che prese il nome da quella data (“Movimento 26 de Julio“), divenne presto un’organizzazione capace di abbattere la dittatura corrotta (sostenuta dagli Stati Uniti) di Fulgencio Batista.

Guevara fu aggregato come medico all’esercito irregolare di Castro, ma volle partecipare all’addestramento militare con tanto entusiasmo e impegno da risultare il migliore del corso ed essere quindi considerato un guerrigliero a tutti gli effetti. Il suo furore rivoluzionario lo portò a guidare una squadra in una delle battaglie decisive combattuta a Santa Clara. Questa vittoria, unitamente alle altre ottenute dai “barbudos” di Castro (così chiamati per le barbe incolte che portavano tutti i militanti rivoluzionari), spinsero la maggior parte degli ufficiali dell’esercito cubano ad arrendersi, e Fulgencio Batista a fuggire nella Repubblica Domenicana.

Il 2 gennaio 1959 il Che entrò da trionfatore a L’Avana, occupando la fortezza militare La Cabaña, simbolo stesso del potere nell’isola dai tempi della dominazione spagnola. I sei mesi successivi rappresentano il periodo più scuro della parabola del Che, segnati dalle epurazioni, dai processi farsa e dalle esecuzioni sommarie cui Guevara avrebbe sovrinteso personalmente, decretando la vita e la morte di molte persone.

A La Cabaña il Che istituì la “Comision depuradora”, così spiegata da Napoleon Vilaboa, membro del “Movimento 26 de Julio” che aveva dato origine alla rivoluzione castrista: «Si trattava di un organismo che aveva il compito di depurare le forze armate di Cuba, ma in realtà il suo intento era quello di instaurare il terrore rivoluzionario nell’isola. Le fucilazioni erano arbitrarie, dato che i rinchiusi ne La Cabaña erano già stati preventivamente giudicati come persone da giustiziare. Uno dei casi è quello del tenente José Castaño, capo del BRAC (“Burò para la Represiòn de las Actividades Comunistas”), che fu ucciso personalmente dal Che nel suo ufficio, nonostante contro di lui non ci fossero prove alle accuse mossegli. Il Che gli sparò due colpi alla testa».

Per Jon Lee Anderson, autore della più autorevole biografia sul Che, furono almeno cinquantacinque le esecuzioni riconducibili direttamente al comandante Guevara. Il ritratto che di quest’ultimo fa Regis Debray – intellettuale francese suo amico intimo e con lui arrestato nell’ottobre del 1967 – è impietoso; in un libro lo definisce «dogmatico, freddo, intollerante».

Su Debray, futuro consigliere politico del presidente socialista francese François Mitterand, grava il sospetto che sia stato il vero autore del tradimento nei confronti del Che: che sia cioè lui a indicare la posizione della banda a Honorato Rojas, il contadino che ne diede poi notizia ai militari boliviani. Debray – dicono i suoi detrattori – aveva tutto l’interesse a screditare il Che dopo averlo tradito.

Sulla stessa lunghezza d’onda negativa nei confronti di Guevara si inseriscono le parole di Alvaro Vargas Llosa, il figlio di Mario, celebre intellettuale peruviano sostenitore della rivoluzione castrista, poi attestatosi su posizioni liberiste. Per Alvaro, il Che fu «responsabile di centinaia di esecuzioni nel carcere della Cabaña», organizzando i primi campi di concentramento per i prigionieri politici e gli “asociali”, tra cui gli omosessuali. Il primo fu quello di Guanahacabibes, e servì da modello per le Unidades Militares de Ayuda a la Producciòn (UMAPS), che arrivarono a “rieducare” un numero di persone stimato sulle 30mila.


Missili contro la Grande Mela

Per il “nuovo uomo” il Che teorizzava che si potesse sacrificare qualsiasi cosa: oltre alla propria vita – come lui stesso avrebbe fatto – anche quella di un intero popolo. Nella fattispecie, quella dei cubani. «Cuba», disse in una intervista, «è l’esempio tremendo di un popolo disposto all’auto-sacrificio nucleare, perché le sue ceneri possano servire da fondamento per una nuova società». Un sacrificio consequenziale al desiderio di scatenare un’offensiva nucleare contro gli Stati Uniti, lanciandogli contro, a cominciare da New York, i missili installati a Cuba dopo gli accordi da lui personalmente firmati a Mosca nel 1961 e che portarono il mondo alle soglie della Terza guerra mondiale l’anno seguente. Il 12 dicembre 1964, nel suo famoso quanto terribile discorso tenuto davanti all’assemblea dell’ONU, all’accusa delle esecuzioni sommarie di cui si era macchiato il regime castrista, il Che dichiarò: «Fucilazioni? Certo! Noi abbiamo fucilato, fuciliamo e continueremo a fucilare finché sarà necessario. La nostra lotta è fino alla morte».

L’idea di esportare la rivoluzione sul modello cubano fu spiegata dal Che nel libro La guerra di guerriglia: un vero e proprio manuale da mettere in pratica anzitutto in America Latina e in Africa. Bastava – sosteneva in esso – un piccolo gruppo rivoluzionario per aggregare poi le masse. Questa strategia, la cosiddetta “dottrina del focolaio” che si era rivelata vincente a Cuba, risultò però inapplicabile altrove, causando la fine stessa del Che.

Il 24 febbraio 1965, il comandante Guevara fece la sua ultima apparizione pubblica intervenendo ad Algeri al “Secondo seminario economico sulla società afro-asiatica”, dichiarando: «In questa lotta fino alla morte non ci sono frontiere. Non possiamo rimanere indifferenti di fronte a quanto accade in ogni parte del mondo. Una vittoria di qualsiasi nazione contro l’imperialismo è una nostra vittoria, come una sconfitta di qualsiasi nazione è una nostra sconfitta».


USA e URSS, nemici alla pari

Rientrato a Cuba dopo il clamoroso discorso tenuto ad Algeri, il Che scomparve dalla scena per il resto dell’anno, alimentando le voci più diverse, tra le quali le più accreditate lo volevano in disgrazia presso Castro per il fallimento del suo piano di industrializzazione, ma anche per le pressioni dei sovietici sul regime castrista per l’avvicinamento del Che alle posizioni cinesi. Non era mistero che Guevara volesse applicare non solo a Cuba, ma a tutta l’America, la strategia maoista; l’industrializzazione forzata che voleva imporre a Cuba rifletteva «il grande balzo in avanti» impresso da Mao alla Cina.

La frattura del Che con i sovietici si era consumata nel 1962, quando Nikita Kruscev aveva ritirato i missili da Cuba senza nemmeno consultare Castro. Nel suo discorso ad Algeri, il Che dichiarò di considerare l’emisfero settentrionale, composto a ovest dagli USA e a est dall’URSS, come un unico soggetto sfruttatore dell’emisfero meridionale. La guerra fredda fra Washington e Mosca era, insomma, una cortina fumogena che nascondeva gli atti predatori che i governi americani e sovietici compivano ai danni del Sud del mondo.

Il 3 ottobre 1965 Fidel Castro rese pubblica una lettera con cui il comandante Guevara dichiarava la sua intenzione di abbandonare Cuba per esportare la rivoluzione «fino alla vittoria, sempre». Da questo momento inizia l’ultima fase della sua vita.

In un incontro durato tutta la notte tra il 14 e il 15 marzo precedente, Che Guevara aveva convinto Castro della necessità di un suo intervento in Africa, partendo dall’ex Congo Belga, a sostegno del movimento marxista dei Simba. Un intervento destinato al fallimento: a detta del Che, per «l’incompetenza, il settarismo e le lotte intestine delle varie fazioni congolesi».

Dopo sette mesi di permanenza nel continente africano, avvilito e afflitto sempre più spesso dai suoi attacchi asmatici, Guevara abbandonò il terreno di lotta dopo che due emissari di Castro riuscirono a farlo desistere dal proposito suicida di immolarsi da solo per fare del suo sacrificio un esempio per i rivoluzionari di tutto il mondo. Il Che, però, non se la sentì di rientrare a Cuba come avrebbe voluto Castro, e visse clandestinamente in Tanzania, nella Repubblica Ceca e nella Germania dell’Est. Riapparve quando, nel marzo del 1967, il presidente boliviano René Barrientos ebbe le prove che il rivoluzionario argentino si trovava sul suo territorio.


La fine

Il Che era entrato in Bolivia con cinquanta uomini: i combattenti dell’ELN (Ejército de Liberaciòn Nacional de Bolivia). Gli scontri a fuoco con gli uomini di Barrientos si susseguirono con sempre maggiore frequenza, assegnando diversi successi ai guevaristi. Guevara tenne fede al “giuramento di Ippocrate” pronunciato dai medici, fornendo cure mediche anche ai nemici catturati feriti e poi rilasciati: episodi raccontati dagli stessi soldati boliviani con particolari che fanno avanzare dubbi legittimi sulla veridicità delle accuse rivolte al Che relativamente al periodo de La Cabaña.

Il piano di Guevara per portare la rivoluzione in Bolivia era tuttavia destinato al fallimento per più ragioni. Appena avuta conferma della sua presenza in Bolivia, gli USA inviarono consiglieri e rangers. Contrariamente a quanto si aspettava, il Che fu lasciato solo dagli oppositori al governo boliviano. Il contatto radio con l’Avana cessò quando tutta l’attrezzatura andò perduta durante l’attraversamento di un fiume.

A determinare la sconfitta contribuì poi lo stesso Che: la sua intransigenza giacobina non gli consentì di ottenere la benché minima collaborazione da parte del partito comunista boliviano. Un carattere scontroso che a Cuba era stato “smussato” dagli interventi di Castro.

A guidare la caccia al Che in Bolivia fu Félix Rodriguez, un agente della CIA già infiltratosi a Cuba in occasione della fallimentare invasione della Baia dei Porci del 1961 da parte degli americani per rovesciare Castro. L’imboscata che avrebbe determinato la fine del Che avvenne a pochi chilometri dal villaggio di La Higuera. Dopo essere stato ferito alle gambe, il comandante si arrese: «Sono Che Guevara. Posso esservi utile più da vivo che da morto». Ma non fu ascoltato.


Di Pino Casamassima (da: History, n.57)

Un commento

  • “Noi abbiamo fucilato, fuciliamo e continueremo a fucilare finché sarà necessario”… Il Che aveva le idee chiare 😉 😉

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