“Aristocrazia operaia”. Lorenzo cenni e il concetto di lavoratore-intellettuale

La figura di Lorenzo Cenni è per certi aspetti misteriosa. La sua vita era scandita di giorno dal lavoro di tipografo, di notte dallo scrivere proclami e invettive anarco-sindacaliste e dall’affiggere manifesti nelle strade buie del centro di Firenze. La pasionaria anarchica Leda Rafanelli lo volle con sé alla direzione della rivista letteraria e operaista La Blouse, il cui motto era: «L’emancipazione dei lavoratori, deve essere opera dei lavoratori stessi», e il cui fine era creare un ponte tra il movimento operaio e quegli artisti e intellettuali sovversivi che rivendicavano un ruolo sociale dell’arte; teoria assolutamente in anticipo rispetto al dinamismo propugnato dai proclami e manifesti teorici del movimento futurista.

Cenni si rivelò valente tipografo ma anzitutto si impegnò a ricoprire il ruolo di intellettuale refrattario e di agitatore-propagandista, attratto inizialmente dal pensiero anarco-individualista e iconoclasta, e animato da spirito antireligioso, anticlericale e antimassonico. In questo periodo di forte simpatia per l’insurrezionalismo radicale, Cenni pubblicò diversi libri dedicati a figure storiche del movimento anarchico e i libri dei versi del poeta-contadino Antonio Gamberi. Poi, nel 1908, dopo aver stampato una sua raccolta di racconti intitolata Cardi selvaggi. Brani di vita vissuta. Quadri sociali. Gli scritti da Parigi di Fanny Brunori, abbandonò l’anarchismo impegnandosi sul fronte del socialismo rivoluzionario.

Nel 1914 si avvicinò di fatto all’ambiente futurista e pubblicò, sotto l’egida della neonata scuola dei Liberi Aderenti all’Aristocrazia Operaia, il libello polemico Aristocrazia operaia presso la tipografia di Enrico Vallecchi, che stampava le riviste futuriste Lacerba e Quartiere Latino, a suo modo anch’essa di orientamento anarco-futurista e animata dallo spirito contadinesco strapaesano di Ugo Tommei.

Si realizzò, dal punto di vista meramente ideale, l’unione quasi impossibile di intenti tra gli irrequieti futuristi, guidati da Filippo Tommaso Marinetti, sempre più ispirato dalla lotta contro il potere borghese, e gli anarchici interventisti che, assieme ai socialisti rivoluzionari, erano attratti dall’idea che la guerra fosse una necessità sociale, una spinta rivoluzionaria verso la conquista della purezza ideologica fondata sul combattimento e sul sacrificio – per questo nel libello di Cenni, oggi ripubblicato in veste critica, è stata aggiunta una appendice di testi anarco-futuristi di Marinetti, Renzo Novatore, Guido Poggi, Renzo Provinciali, Italo Tavolato e Ugo Tommei, che rappresentano appieno questa fragile linea di continuità.

Il lievito dell’insurrezione dei lavoratori contro le istituzioni politiche, statali, religiose e borghesi, secondo quanto scritto da Cenni in Aristocrazia operaia, stava non tanto nel forzare i tempi della lotta di classe o nell’attuazione dello sciopero generale, bensì nello stimolare una crescita intellettuale delle stesse forze operaie, invitate a superare quelle distinzioni e quelle barriere ideologiche rappresentate dai partiti politici tradizionali e dalle forze sovversive, essenzialmente anarchiche e socialiste, incapaci di trasformare la rivoluzione in un percorso costruttivo. L’obiettivo, assolutamente attuale, non era la realizzazione utopica di una società anarchica totale, che probabilmente alla fine sarebbe stata totalitaria, ma quello di cambiare la civiltà in senso moderno e libertario, agendo quindi sul costume, sulla cultura, sull’economia e sul sociale in senso stretto.

Ai lavoratori, Cenni proponeva «di non andar più a far mostra dei propri stracci ma, invece di giuocarsi o beversi i denari […], togliendosi la blouse indossata pel lavoro», li invitava a recarsi «vestiti magari con una certa eleganza, al passeggio, al teatro, al museo o alla galleria, prendendosi insomma tutte quelle sane ricreazioni che ritemprano il corpo e lo spirito».

Perché «la zavorra, la densa e brulicante stragrande maggioranza» degli operai, «pur sapendo ora in buona quantità leggere e scrivere, non se ne serve che per sdilinquirsi davanti ad una stupida e deprimente letteratura da bordello o dalle facili ed ottuse dimostrazioni eroicomiche o criminose».

Mentre erano pochi quegli operai che cercavano «nei momenti di libertà, di crearsi delle sane cognizioni scientifiche ed artistiche». Per questo, l’estremista Lorenzo Cenni teorizzò la creazione di una scuola di pensiero e di vita «libera senza codici, né timbri, né tessere», fondata su di una aristocrazia di operai da intendersi da un punto di vista soprattutto morale e civile. Con fare messianico, Cenni profetizzò la liberazione del proletario: «Quando le bettole, le case da giuoco ed anche i postriboli saranno disertati dagli operai che avranno orrore di comprare l’amplesso, ma cercheranno di ottenerlo e di meritarselo dalla donna amata calpestando gli stupidi convenzionalismi; allora l’Aristocrazia operaia sorgerà potente: aristocrazia dell’ingegno, aristocrazia geniale, che dando impulso ai muscoli possenti scaccerà lungi dalla sconfinata cerchia delle proprie energie tutti gli intrusi mestieranti».

I “Liberi” aderenti all’Aristocrazia operaia intendevano anche mettere in guardia, in maniera indubbiamente maschilista, la classe operaia dall’avvento di un nuovo nemico del lavoratore, le cosiddette Signorine: categoria di lavoratrici a sé stante, malleabile e soprattutto manipolabile perché «meno esigente, più disciplinata: datele l’illusione dell’eleganza e di una elevazione professionale» e «la Signorina si guarderà bene dal chiedere i propri diritti, dal prender parte a delle agitazioni, dal minacciare scioperi».

Secondo Cenni gli operai moderni non intendevano «negare alla donna il diritto di entrare nell’agone della vita propriamente detta: di scegliersi, cioè, la propria professione a seconda delle proprie attitudini o inclinazioni», ma mettevano in guardia «il maschio, leggero», che «sente la debolezza per la femina scaltra», capace con un sorriso di annientare: «L’ira e la protesta dell’uomo e di ricoprire, ammantare di grazia, ogni proprio atto antipatico, compreso quello di alzarsi, in qualche caso, la sottana quando la paga meschina non basta alle esigenze di una esteriorità elegante e raffinata».

La difesa di classe dell’operaio moderno avrebbe dovuto invece «spingere gli uomini a porre un argine a simile condizione di cose», difendersi da questa sorta di prostituzione istituzionalizzata che ancora oggi vediamo manifestarsi in maniera evidente, alimentata da scandali e gossip.

A detta di Cenni, non occorreva creare una struttura politica organizzata per guidare il proletariato, semmai la stessa lotta dei lavoratori per la civiltà e le riforme sociali avrebbe dovuto raccogliere attorno a sé i socialisti rivoluzionari, gli anarchici irrequieti, i futuristi visionari, i sindacalisti ribelli e l’élite operaia emancipata. Insomma, i rappresentati di quel «proletariato dei geniali», teorizzato dal fondatore del Futurismo, Marinetti, e che andavano predicando la necessità della violenza, ma anche la nascita dell’Uomo Nuovo e di una società nuova basata su principi libertari. Denigrando «l’opera mostruosamente letale della cosiddetta democrazia del ventre», Cenni invitava all’auto-emancipazione delle masse proletarie.

Il sogno di Cenni e dei “Liberi” aderenti all’Aristocrazia operaia era di contribuire all’emancipazione del singolo proletario, trasformandolo da vecchio lavoratore incapace di reagire alle regole dettate dalla borghesia e dal dominio capitalista, in operaio moderno, in lavoratore-intellettuale, l’Homo faber padrone di se stesso, cosciente del proprio ruolo e della propria forza rinnovatrice. Per questo, messo di fronte alle incapacità politiche dei movimenti sovversivi tradizionali, animati cioè da socialisti e anarchici, Cenni si rivolse a rivoluzionari ben più radicali, come il socialista eretico e interventista Benito Mussolini, tanto da diventare corrispondente da Firenze de Il Popolo d’Italia.

L’evoluzione del percorso ideologico eretico di Cenni, in particolare il suo avvicinamento a Mussolini dopo la conversione di quest’ultimo all’interventismo, sottolinea quanto l’idea mussoliniana della guerra rivoluzionaria fosse vicina sia al concetto di «guerra sola igiene del mondo» propagato da Marinetti e, al tempo stesso, fosse prossima anche al pensiero minoritario del gruppo degli anarco-interventisti, che, pur non volendo la guerra, ne intuivano però la potenzialità rivoluzionaria, e quindi si schierarono a favore dell’interventismo.

L’attività di agit-prop a favore dei socialisti eretici mussoliniani costò a Cenni il disprezzo dei vecchi compagni di lotta, che non gli perdonarono il tradimento dell’ortodossia social-pacifista, tant’è che due membri del partito socialista fiorentino lo attesero per la strada e lo bastonarono con una violenza tale da procurargli un ematoma del cuoio capelluto, con una prognosi di otto giorni.

Dopo lo scoppio della Rivoluzione bolscevica, seguendo l’anti-leninismo di Mussolini, Cenni pubblicò l’ennesimo libercolo propagandistico intitolato Il fuoco che incendiò la Russia, per denunciare il pericolo dell’ideologia leninista e bolscevica, pronta a liquidare il proletariato e a costruire un regime dispotico e autoritario. Da quel momento di Cenni, anarchico e libertario, sindacalista rivoluzionario, amico dei futuristi, diventato infine socialista rivoluzionario mussoliniano, non si seppe più nulla.


Di G. A. Pautasso (da: L’intellettuale Dissidente)

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