Incursori italiani contro le basi americane. Storia di una missione impossibile

Nel giugno 1943, sul teatro del Mediterraneo, l’Italia mandò due reparti specializzati a minare le basi da cui partivano i quadrimotori da bombardamento dell’aviazione statunitense. Un’impresa che riuscì solo grazie al valore di due soldati.

Teatro del Mediterraneo, 1943. Le cose non vanno affatto bene per l’Asse. Grazie all’enorme potenziale statunitense, l’operazione “Torch” ha consentito lo sbarco alleato in Marocco e Algeria, piegando la resistenza poco più che simbolica del regime francese di Vichy, al quale il territorio nordafricano era soggetto, nei giorni in cui veniva sfondato anche il fronte a El Alamein. La situazione era molto difficile. Dal novembre 1942 erano iniziati i bombardamenti diurni statunitensi contro obiettivi italiani, mentre la Royal Air Force, l’aviazione britannica, operava durante la notte. Contro i grandi quadrimotori B-17 Fortezze Volanti e B-24 Liberator dell’US Army, i caccia diurni della Regia Aeronautica in servizio si erano dimostrati insufficienti e con caratteristiche (velocità e armamento) inadatte, mentre i tre nuovi velivoli della Serie 5 stavano entrando solo in quel momento in servizio. Vista la situazione, si pensò di inviare gli incursori contro le base aeree da cui partivano i quadrimotori da bombardamento strategico statunitensi.

Quando si parla di forze speciali italiane nella Seconda guerra mondiale, si fa quasi sempre riferimento agli uomini dei mezzi d’assalto della X MAS. L’Italia, però, schierò, seppur in ritardo, anche altre due componenti assai meno conosciute: il X Reggimento Arditi del Regio Esercito (diviso in compagnie specializzate in penetrazioni oltre le linee nemiche con aviolanci, sbarchi dal mare e camionette) e gli Arditi Distruttori della Regia Aeronautica (ADRA), specialità dell’arma azzurra. Entrambe le specialità furono formate a partire dal 1942. Gli ADRA non vanno confusi con il 1° Battaglione Paracadutisti della Regia Aeronautica che era stato messo a punto per l’operazione C3, vale a dire l’assalto a Malta, in particolare per la conquista degli aeroporti.

Bisogna ricorda inoltre che nell’ambito del Reggimento San Marco della Regia Marina militavano anche i battaglioni “P” (Paracadutisti) e “N” (Nuotatori), destinati entrambi a svolgere missioni speciali. L’addestramento per tutti questi uomini era intenso e prevedeva l’assegnazione di materiali particolari, come un piccolo paracadute aggiuntivo che l’incursore doveva aprire mentre scendeva con la sua velatura già aperta, destinato a sostenere il contenitore con gli esplosivi a sua volta legato con una fune al paracadutista. Questo accorgimento era stato escogitato perché l’equipaggiamento completo era risultato troppo pesante da reggere per il paracadute in seta IF/SP-41 in dotazione agli incursori, e aveva creato problemi di oscillazione che complicavano non di poco l’atterraggio.

Le pattuglie di incursori erano formate da dieci elementi, con alla testa un ufficiale o un sottufficiale esperto. L’armamento era quanto di meglio il Regio Esercito aveva a disposizione: l’affidabile mitra Beretta MAP 38, la pistola Beretta 34, le bombe a mano e le cariche esplosive a tempo – dieci per ogni incursore – da piazzare in corrispondenza dei serbatoi dei velivoli, come era stato insegnato durante i severi corsi d’addestramento.

Restava da stabilire come infiltrarsi. In alcune precedenti azioni, il X Reggimento Arditi aveva utilizzato anche i sommergibili, ma gli aeroporti che si volevano colpire si trovavano in zone interne e non costiere e la Regia Marina non aveva un numero adeguato di unità subacquee per portare avanti vari attacchi contemporaneamente. Fu quindi deciso di paracadutare gli incursori usando i trimotori Savoia Marchetti SM.82 “Marsupiale”, che avevano dimostrato di essere affidabili.

Dal febbraio del 1943 gli italiani avevano tentato varie incursioni contro ponti ferroviari e aeroporti in Algeria e avevano sperimentato già allora come il lancio fosse la parte più delicata dell’operazione. Non solo non era stato formato un reparto aereo specializzato in questo tipo di missioni, particolarmente complesse in quanto si svolgevano in territorio ostile, ma i nostri velivoli da trasporto disponevano di radioausili per la navigazione, per cui dovevano basarsi su riferimenti ottici a terra e usare bussola e cronometro. Le aree desertiche, però, buie e disabitate, offrivano ben pochi elementi identificabili di notte.

Il 10 aprile partirono dall’aeroporto sardo di Decimomannu le pattuglie del capitano Bosco e dei tenenti Greif e Graff. Il loro obiettivo era l’aeroporto di Biskra, in Algeria, e due ponti ferroviari. La missione fallì perché non solo la zona di lancio fu sbagliata, ma in un caso la quota era troppo bassa per cui gli incursori non ebbero il tempo di sganciare lo zainetto con gli esplosivi e rimuovere il mitra dalla sua posizione lungo la gamba, e quando toccarono terra fu un disastro. Nell’atterraggio il capitano Bosco subì ferite talmente gravi che morì dopo alcuni giorni; gli altri furono individuati rapidamente dalla popolazione locale, ansiosa di incassare la taglia messa sulla testa dei nemici dagli Alleati.


Contro le basi dei bombardieri

Grazie alle immagini ottenute tramite le ricognizioni effettuate dalla Luftwaffe, che disponeva di velivoli in grado di sfuggire ai caccia avversari, alcune delle principali basi aeree alleate furono comunque identificate: si trattava degli aeroporti di Orano, Algeri, Biskra, Sfax, Tripoli-Castel Benito, El Diem e Bengasi-Benina, su cui erano schierati centinaia di bombardieri pesanti statunitensi.

Si decise a questo punto per l’azione in contemporanea contro più bersagli e per la prima volta elementi del Regio Esercito e della Regia Aeronautica avrebbero operato insieme. I velivoli diretti contro gli aeroporti di Orano e Algeri, situati più a oriente, avrebbero dovuto decollare dalla base francese di Salon, in Provenza, mentre quelli inviati contro gli obiettivi a Sfax e Tripoli dall’aeroporto di Gerbini, in Sicilia. Gli aerei diretti a Bengasi, infine, sarebbero partiti dalla base di Iraklion, sull’isola di Creta. Contro Tripoli e Bengasi avrebbero agito anche quattro pattuglie della ADRA. Tutte le altre squadre appartenevano al X Reggimento Arditi. I decolli sarebbero iniziati la sera del 13 giugno.

Tutto il personale fu radunato sull’aeroporto di Rimini Miramare. Dopo la libera uscita, i soldati ricevettero degli scarponcini nuovi, ma fu un grave errore: essendo ancora troppo rigidi, avrebbero causato grossi problemi durante le lunghe e problematiche marce in Africa. La missione partì subito in salita. I due velivoli che avevano come obiettivo le basi aeree nell’area di Tripoli e Sfax si trasferirono sulla pista di Gerbini, molto esposta agli attacchi aerei – all’epoca si combatteva per Pantelleria e lo sbarco americano in Sicilia era ormai alle porte – e finirono distrutti al suolo. I decolli iniziarono alle 19,30 del 13 giugno e continuarono fino alle 2,10 del giorno successivo, ora dell’ultimo lancio. Le previsioni meteorologiche, all’epoca ancora ai primordi, non seppero prevedere i forti venti che soffiarono durante la notte, sicché i decolli avvennero con forti venti di poppa, che condizionarono anche l’aeronavigazione e i lanci in Algeria. Le conseguenze furono nefaste: alcuni incursori si ferirono nell’atterraggio, molti furono catturati e gli equipaggiamenti, sganciati dal vano di carico, si dispersero su un territorio più vasto del previsto. In seguito, al ritorno dalla prigionia, alcuni superstiti riferirono di aver avuto la netta impressione di essere attesi a terra. In realtà, questi velivoli solitari furono sicuramente individuati dai radar avversari e la loro presenza notturna mise in allarme il dispositivo difensivo, che ebbe modo di prepararsi per tempo.

Gli attacchi erano previsti simultaneamente per il 18 giugno: questo significava rimanere nell’area per diversi giorni dopo l’atterraggio, incrementando per i soldati le possibilità di essere individuati dalla popolazione locale, sempre molto attenta alla presenza degli stranieri. Un altro inconveniente fu che alcune borracce in dotazione agli incursori risultarono incredibilmente vuote alla bisogna (quando invece i soldati ricordavano di averle riempite prima dell’imbarco). A ciò si aggiunse che i contenitori con l’acqua si spaccarono tutti all’impatto. In Africa, in pieno giugno, gli incursori si trovarono quindi senz’acqua e furono costretti a ricercarla avvicinandosi ai luoghi abitati. Finirono quasi tutti catturati, spesso al termine di violenti scontri a fuoco, con morti e feriti da entrambe le parti.

Per l’azione contro la base di Bengasi-Benina fu pianificata, ed era la prima volta, una esfiltrazione via aerea da compiersi atterrando, il 23 giugno, su di una piccola pista in terra battuta a circa 60 chilometri dalla stessa Bengasi, in una zona disabitata, sfruttando per questo la conoscenza dell’area da parte di alcuni esperti piloti italiani, in grado di trovarla e di planarvi nelle ore notturne se da terra fossero stati trasmessi gli opportuni segnali luminosi. La missione di recupero sarebbe stata replicata tre giorni dopo. A Bengasi-Benina insieme agli incursori sarebbero stati paracadutati anche il maggiore Marco Beltramo della Regia Aeronautica e un radiotelegrafista che avrebbero dovuto poi separarsi dal gruppo per osservare l’esito dell’attacco e riferirne in Italia, avendo al seguito un apparato radio (ma anche dei piccioni viaggiatori, nel caso in cui il primo si fosse guastato).


Attacco a Benina

L’aeroporto di Benina si trovava a circa 10 chilometri a est di Bengasi. Era un aeroporto italiano della Cirenaica, ma le forze statunitensi, dopo essersene impadronite e averlo ribattezzato Benina1, l’avevano ampliato utilizzando anche griglie metalliche incastrabili fra di loro. Grazie ai potenti mezzi meccanici di cui disponevano, avevano inoltre realizzato un secondo aeroporto, Benina2, oltre la strada che da Bengasi si dirigeva verso le colline del Djebel cirenaico. Le due pattuglie degli ADRA dirette contro Benina, comandate dai tenenti Balmas e Comis, distaccarono un elemento ciascuno per andare in ricognizione. Si trattava del 1° aviere Vito Procida e dell’aviere Francesco Carniel. Subito dopo l’arrivo, le due pattuglie vennero individuate e catturate dopo un combattimento. Sentite le sparatorie, i due membri del commando in ricognizione si risero conto dell’accaduto e decisero di proseguire ugualmente la missione. Sofferenti per le vesciche causate dagli scarponi nuovi e tormentati dalla sete, uccisero un dromedario a colpi di pugnale e si dissetarono con il suo sangue. Proseguendo la marcia, videro dalle colline le due basi di Benina e l’intensa attività che vi si svolgeva; dopo un’attenta osservazione individuarono un percorso per avvicinarsi e il punto dove penetrare la recinzione perimetrale, in modo da raggiungere le piazzole su cui erano parcheggiati i quadrimotori americani e compiere la loro missione.

La notte del 18 giugno, Procida e Carniel si avvicinarono alla base dopo aver assunto degli stimolanti per rimanere svegli. Il perimetro era vigilato da pattuglie motorizzate e sorvegliato da postazioni con riflettori. Superare il reticolato perimetrale non fu però difficile e i due soldati raggiunsero l’area dei parcheggi. Avevano con sè venti piccole cariche esplosive munite di meccanismo di scoppio a tempo. Rapidamente le sistemarono nel vano carrelli laterale dei B-24, nei pressi dei serbatoi alari di carburante. Una carica si era danneggiata nell’urto: la posizionarono nel vano spoletta di una grossa bomba su di un carrello, il tutto nel massimo silenzio perché le tende utilizzate dai soldati nemici come alloggi non erano lontane. Terminato il lavoro, i due incursori si allontanarono veloci, riattraversarono la recinzione e, mentre erano ormai a un chilometro di distanza, partì la sequenza di esplosioni seguita da fiamme molto alte, finché non esplose la bomba d’aereo. La mattina seguente, i due potevano vedere ancora benissimo l’alta colonna di fumo che si levava dalla struttura. La bomba d’aereo aveva spazzato via parte delle tende. Almeno diciotto quadrimotori erano andati completamente distrutti e altri erano stati danneggiati, un numero nettamente superiore alle perdite subite a opera dei caccia e dell’antiaerea italo-tedesca dai bombardieri alleati durante le grandi operazioni aeree nei cieli della penisola. Due soli uomini, insomma, erano riusciti a giustificare il grande sforzo compiuto, costato la cattura di tanti incursori.

Procida e Carniel erano però completamente senza acqua e viveri, tormentati dalle piaghe ai piedi. Quando incontrarono un libico chiesero aiuto. L’uomo parlava italiano: disse di essere stato un ex militare del Regio Esercito e diede loro del latte e del pane. Dopo di lui ne incontrarono un altro, che li rifornì di latte di capra. Ma non appena si furono allontanati, il libico aprì il fuoco ferendo Carniel a un polpaccio. I due soldati, avendo perso parte delle armi durante il lancio, si difesero con l’unico mitra MAB di cui disponevano, ma rimasero bloccati in una buca. Dopo mezz’ora, richiamata dai colpi di arma da fuoco, giunse una pattuglia britannica e ai due non restò che arrendersi.

Quando il 23 giugno, come da programma, il Savoia Marchetti proveniente da Creta sorvolò la zona per il previsto recupero, non vide alcun segnale luminoso. Tornò tre giorni dopo e questa volta, pur in assenza di segnali, decise di atterrare. A bordo c’erano il colonnello Klinger, un veterano delle aviolinee e dei voli a lungo raggio, e i capitani piloti Cervi, Velani e Appoggi, oltre a quattro militari degli ADRA. La manovra di atterraggio riuscì e i militari armati sbarcarono. Possibile, si chiesero, che nessuno degli incursori si fosse salvato? Passò l’alba e si fece giorno, e l’equipaggio decise di rimanere a terra sfruttando il fatto che la Cirenaica era disseminata di carcasse di velivoli, per cui si poteva essere scambiati per un mezzo costretto a un atterraggio d’emergenza chissà quando. Trascorse l’intera giornata e la notte successiva, poi la pattuglia desistette e decollò nuovamente alla volta di Creta.


L’eroismo non basta

Durante questa missione impossibile in Algeria, gli incursori, quindi, si rivelarono ben preparati e decisi. Ma furono commessi molti errori. Fu sopravvalutata la possibilità di passare inosservati in zone popolate, senza considerare che che i radar nemici avrebbero rilevato l’attività, visto che i lanci dovevano avvenire a bassa quota e un aereo nemico in volo di notte avrebbe attratto l’attenzione, fornendo preziose indicazioni circa il punto in cui era avvenuto il lancio. Controproducente fu la distribuzione di scarponcini nuovi subito prima della missione, così come il fatto che non si fossero studiati contenitori per l’acqua più robusti, in grado di sopportare violenti impatti. Si sarebbe dovuto poter contare su qualcuno, in Cirenaica, in grado di dare appoggio localmente, così come si sarebbe dovuto approntare un reparto speciale, adeguatamente equipaggiato, in grado di gestire missioni delicate come questa. Ma mancavano pochi giorni allo sbarco alleato in Sicilia, per cui questa azione venne ben presto oscurata dall’operazione “Husky” e dai successivi avvenimenti. Delle operazioni delle pattuglie del X Reggimento Arditi e degli ADRA sarebbe rimasto a lungo solo un pallido ricordo.


Di Luca Poggiali

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