«Andavamo al supplizio come se andassimo verso il trionfo». L’incredibile testimonianza di una “Volpe Argentata”. Di Carla Costa

In seguito alla caduta del fascismo, fin dalla fine del 1943, si formarono in Italia svariati gruppi di intelligence dediti allo spionaggio e al controspionaggio. Fra di essi, vi era la banda delle “Volpi Argentate”, definita dallo storico Roberto Festorazzi «tra le più temibili» organizzazioni della Repubblica Sociale Italiana. Formata interamente da donne, la banda delle Volpi Argentate era perlopiù un «gruppo speciale autonomo» anche se, spiega Festorazzi, fin dall’inizio «agì in stretta connessione con i servizi di sicurezza tedeschi della Wehrmacht e della Gestapo», i quali fungevano anche da istruttori militari per inviare le “Volpi Argentate” in missioni nel sud occupato dagli Alleati. Tale organizzazione – ha spiegato lo storico – rappresentò quindi «una delle vicende più affascinanti e intriganti del Novecento». Per tale motivo, abbiamo deciso di pubblicare un vecchio scritto della militante Carla Costa – giovane e coraggiosa “Volpe Argentata” – pubblicato sulla rivista ACTA il 21 aprile 1987. Buona lettura!


Fuga per arruolarmi

Mi iscrissi alle squadre giovanili “Onore e Combattimento” (Federazione di Roma) per il corso di infermiera. Ma non ero ancora soddisfatta: sognavo di più, volevo di più! La Patria stava morendo… Il mio pensiero dominante era quello di poter andare al fronte.

Chiedevo a tutti, interrogavo tutti, e fu proprio in Federazione che sentii parlare di «un Colonnello che arruolava anche donne». «E dove sta, questo Colonnello?», chiesi. «Non so di preciso», mi risposero. «Ma mi hanno detto che è in Piazza Colonna, al Palazzo della Stampa».

Quando mi si disse di passare, il Colonnello era in piedi vicino alla finestra e mi parve di un’imponenza statuaria. Mi chiese burbero cosa ero andata a fare ed interruppe il torrente delle mie parole con una sferzata quasi ironica: «Ma qui si muore, lo sai?». Si sedette dietro la scrivania e disse che il suo era un «Reparto Speciale», che anche le donne erano «tenute alla più rigida disciplina militare» e che anche loro affrontavano «la bella morte sul campo e la brutta morte davanti ad un plotone d’esecuzione; giacché, per noi, la prigionia non è mai un sistema per riportare la buccia a casa: per noi la prigionia è il principio della fine. Sarai processata, condannata a morte e fucilata nel giro di trenta giorni. Ma puoi essere fiera: sarai fucilata al petto. È la morte dei soldati».

La selezione era rigorosa: occorrevano volontari di sicura fede, di volontà tenace e di un coraggio cosciente del pericolo, perché quei volontari avrebbero portato la guerra, la loro guerra, nel territorio occupato dal nemico.

Quello del Colonnello De Santis era infatti un Reparto Speciale della Guardia Nazionale Repubblicana e dell’Esercito. Nella RSI, i reparti speciali hanno avuto una particolare importanza e un notevole sviluppo, poiché, a causa dell’insufficienza di mezzi – specie per quanto riguarda l’aviazione – si fece sentire la necessità di sopperire alla penuria di materiale meccanico con mezzi umani. E mentre il nemico inviava ovunque e senza tregua i suoi aerei da ricognizione e da bombardamento, l’Esercito Repubblicano, povero di mezzi e ricco di valore, inviava i suoi informatori, i suoi guastatori, i suoi sabotatori: legionari che volontariamente e coscientemente offrivano sé stessi per una missione spesso senza ritorno.

Per le missioni da svolgersi lungo la linea del fuoco e nelle immediate retrovie nemiche, oppure quando si trattava di un gruppo e non di un solo sabotatore o ricognitore, gli agenti speciali indossavano la regolare divisa.

Per le missioni lontano dal fronte e nell’interno del territorio invaso, invece, vestivano necessariamente in borghese, ma avevano in tasca un autentico documento di riconoscimento. La paga era di mille lire al mese.

Traversavano le linee in qualsiasi ora del giorno. Erano decisi a tutto: vivevano in continuo pericolo di vita: cadendo prigionieri, dichiaravano la loro fede e si chiudevano poi in un ostinato silenzio; né minacce, né lusinghe, né torture hanno potuto strappare loro nomi di altri volontari.

Processati e condannati a morte, andavano al supplizio come se andassero verso il trionfo. Chiedevano di non essere bendati e morivano gridando «Viva l’Italia!».

I migliori di noi sono caduti. Noi superstiti abbiamo sfiorato la morte più volte. Non ci siamo mai abbassati a rinnegare alcunché nemmeno davanti ai Tribunali che dovevano condannarci. Abbiamo passato anni nelle patrie galere, con condanne che andavano da dieci anni all’ergastolo. Se non siamo morti e se siamo già liberi, non dobbiamo ringraziare nessuno, perché nulla abbiamo chiesto a nessuno. Se domani la Patria ci chiedesse ancora di buttare la nostra vita allo sbaraglio, perché un invasore strapotente calpesta il suolo italiano e perché l’Italia non ha mezzi sufficienti per resistere, agiremmo come abbiamo agito, certi di non mancare alle leggi della lealtà e dell’onore: non siamo pentiti.

Al Comando l’atmosfera si faceva sempre più rovente. Tornavano i primi Volontari da Cassino, da Anzio, da Nettuno. Raccontavano con una semplicità sconcertante le più straordinarie avventure e le reclute mordevano i freni. Chiesi al Comandante di arruolarmi definitivamente. Mi rivolse alcune domande di carattere personale: dovetti dire che ero figlia unica e che i miei non volevano lasciarmi partire. «Quanti anni hai?», chiese. «Diciassette», risposi. «Non posso prendermi la responsabilità di arruolare una minorenne contro la volontà dei suoi. Ottieni il permesso e poi ne riparleremo». Fu irremovibile ed io vidi crollare tutte le mie speranze. I miei si insospettirono e cominciarono a sorvegliare ogni mio movimento. Scappai. Era la sera del 2 giugno 1944: il Comandante mi diede una divisa, ma volle avvertire la mia famiglia. Riuscì ad effettuare la comunicazione a notte inoltrata: so che tentò di convincere mia madre, che dall’altra parte del filo del telefono piangeva: il Comandante promise di rimandarmi a casa.

La mattina seguente, quando ci fu data la sveglia, il Colonnello era già chiuso nell’ufficio: distrusse parte dei documenti e, messo il resto in una borsa, diede l’ordine dello sgombero. Ci trasferimmo alla Caserma Ferdinando di Savoia, vicino alla Stazione Termini.

Era la fine. Passammo la notte dal 3 al 4 fuori Caserma pronti per la partenza. Roma, nel suo muto spavento, sembrava accorgersi solo allora della guerra. Non una voce, non una luce: per via Nazionale lo scalpiccio dei cavalli della colonna che trasportava verso Nord i feriti. Al mattino del 4, in Caserma e in ordine di marcia. Aerei nemici gettavano manifestini che recitavano: «Italiani, sabotate l’esercito fascista in fuga». Ma nella nostra ritirata nulla aveva l’aspetto di una fuga.

Giunse il Comandante: «Dovevamo partire con un camion e tre macchine: ci stringeremo perché due delle macchine sono introvabili: qualcuno ha avuto paura. Resti pure». Mandò avanti con Katia e le ragazze la macchina rimasta. Fece caricare sul camion viveri per alcuni giorni e vi fece salire gli uomini. Si rivolse a me e mi esortò a tornare in famiglia, mantenendo così la promessa fatta a mia madre. Diede l’ordine di partire e salì in cabina accanto all’autista. Fu un attimo: il camion era già in moto, mi aggrappai alla sponda posteriore e saltai dentro. I camerati mi fecero posto e mi misero tra le mani una rivoltella: «Se noi spariamo, spara anche tu. Devi solo premere il grilletto». Il Comandante non si era accorto di nulla. Percorremmo via Nazionale, passammo per piazza Venezia ed istintivamente gettammo lo sguardo al balcone. Voltammo per il Corso e, raggiunto Ponte Milvio, prendemmo la Statale n. 3, Flaminia. La città di Roma nel giro di poche ore sarebbe diventata bivacco di truppe di colore. Raggiungemmo Milano il 9 giugno, stabilendoci provvisoriamente nella caserma della 2411ª Legione della MVSN [Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale], in via Vincenzo Monti. Vi fu la cerimonia del giuramento dei nuovi arruolati: tesi il braccio verso il Tricolore e pronunciai le parole di rito: «Nel nome di Dio e dell’Italia, giuro…».

Per accordi tra il Comandante e il Capo del Reparto tedesco “Kora” di Viale Monza seguimmo presso tale Comando il corso d’istruzione su uomini e mezzi militari alleati. Seguii due turni contemporaneamente, un giorno uno e un giorno l’altro, uno per l’Esercito e uno per l’Aeronautica (non seguii le lezioni per la Marina perché ero già stata assegnata ad un settore interno). Il corso si proponevano di metterci in grado di riconoscere reparti e dispositivi nemici. L’istruzione verteva dalle notizie più semplici (distinzione di gradi e di unità) sino a quelle più complesse riguardanti i mezzi più perfezionati. Terminai il corso verso la fine di luglio.

Missione di ferragosto

La sera del 6 agosto ero di guardia. Arrivò Gianna e disse: «Il Comandante mi ha mandato a sostituirti. Ti vuole in ufficio». «Partirai stanotte», esordì il Colonnello. «Sei destinata ad un settore tenuto dalle truppe tedesche: andrai a ritirare oggi la parola d’ordine e il fazzoletto che serviranno a farti riconoscere e che ti daranno diritto al loro aiuto: ti accompagneranno sino in vista del nemico. Missione di prima linea: Firenze e dintorni. La città resiste ancora, ma il nemico è già penetrato nella zona di qua dall’Arno. Hai avuto istruzione e addestramento: sai cosa devi fare e quali sono i nostri scopi; gira, osserva, annota mentalmente truppe, armi, spostamenti nemici. Ti tratterrai tre giorni e rientrerai. Buona o cattiva che sia la tua fortuna, comportati bene».

Ritirai la parola d’ordine: “Gero 106”, una parola di nessun significato, comune a tutti i reparti in collegamento con quel Comando tedesco, seguita da un numero che distingueva gli agenti.

Avrei potuto dare la parola d’ordine soltanto ad un ufficiale: per evitare eventuali equivoci con i soldati mi venne consegnato un insospettabile fazzoletto bianco con orlo a giorno contenente un inchiostro simpatico. Scesi verso Firenze accompagnata da un solo soldato: la macchina non poteva proseguire. Montammo in motocicletta e, saltando da una buca all’altra, giungemmo a Villa Palmieri, alle porte di Firenze. La maggioranza dei soldati era sistemata nelle cantine. Un capitano indicò un punto della carta: «Qui c’è un ponte, l’estrema punta tenuta ancora dai nostri soldati», mi spiegò. «Il nemico tenta una manovra aggirante, ha già occupato Campo di Marte: i nostri, se non vogliono rimanere accerchiati dovranno presto lasciare la posizione. É già tutto minato… Vi accompagneremo fino al ponte e quando avremo chiuso i cancelli alle vostre spalle sarete in territorio ostile. Davanti a voi si apre un largo viale alberato, Viale Regina Vittoria, che sbocca in Piazza Cavour. In via Cavour troverete il primo comando nemico».

Il 14 mi diedero per guida una Camicia Bruna. Scendemmo verso la città. Le strade erano deserte, le case abbandonate. Gli scarponi chiodati della mia guida risuonavano sinistramente. Sul ponte una casa semidiroccata serviva da ricovero ai pochi soldati rimasti. Il ponte era sbarrato da una doppia cancellata. Fu scambiata la parola d’ordine. Aperto il primo cancello, venne nuovamente sprangato. Entrammo in casa: un breve corridoio e una parte di quella che era stata una cucina. Un sergente mi assicurò che non avrebbero sparato per darmi il tempo di raggiungere Piazza Cavour. «Voi, comunque, appoggiatevi al muro», disse. Uscimmo insieme, ci avvicinammo al secondo cancello e mi indicò il tratto che avrei dovuto seguire al mio ritorno. «Non dimenticatevene, il ponte è minato». Aprì il cancello, mi diede la mano e… «Buona fortuna, camerata!», disse. Era ancora buio, e mi misi a correre piegata in avanti. Raggiunsi senza incidenti la fine del viale: oltre Piazza Cavour iniziava la zona sotto occupazione. Se avessi potuto raggiungerla, sarei potuta passare inosservata.

Il cielo si schiariva. Sentivo venire dal centro i primi ansimi della città. Salii lungo il mio muro, mi sollevai e portai i piedi al di sopra e da lassù spiccai un salto, attraversai di corsa la Piazza deserta ed imboccai Via Cavour con passo affrettato ma calmo.

«Correte, sparano dalle finestre!». L’insperato aiuto di alcuni camerati che non conoscevo mi aprì la strada verso il Duomo e mi diede la consolante sensazione di non essere poi tanto sola in quella città invasa…

A mezzogiorno, gli americani avevano finito di costruire un ponte militare sui piloni dell’ex-ponte Santa Trinità. Per i civili, niente. Anch’io passai più volte avanti e indietro, saltando nell’acqua tra le macerie.

Girai tutto il giorno per Firenze: verso sera ero in Piazza Santa Maria Novella: un partigiano davanti alla bella Basilica aveva attirato un gruppetto di persone. Mi avvicinai anch’io: «Li abbiamo ammazzati subito [i fascisti], tutti e dieci… Qui, vedete?», disse indicando sul selciato larghe tracce di sangue.

Voltai a caso in Via degli Orti Oricellari. Al numero 25 una scritta bilingue, che proibiva l’ingresso ai militari, attirò la mia attenzione. «É una casa di suore: fra di loro non desterò sospetti», pensai allungando la mano verso il campanello. Entrai e fui accompagnata dalla Superiora, la quale, ascoltata cortesemente la mia richiesta, chiese allarmata: «Non sarete mica fascista, vero?». «No, certamente» risposi con sforzo. «Sapete, non per cattiveria ma di fascisti non ne possiamo assolutamente alloggiare».

La mattina di Ferragosto ripresi il mio giro: un gruppo di fascisti era asserragliato in stazione. Al pomeriggio vi fu l’ordine alleato di consegna delle armi. A Campo di Marte, il 16, notai grandi rinforzi di artiglieria. Avevo mentalmente annotato ogni particolare di carattere bellico secondo le istruzioni ricevute: la missione era ormai al termine e la sera del 16, verso il tramonto, presi la strada che doveva riportarmi al ponte. Arrivai in piazza Cavour senza che nessuno mi dicesse nulla. Sulla mia destra, dall’altra parte, si apriva viale Regina Vittoria, la terra di nessuno. «Ehi voi! dove andate?», sentii gridare all’improvviso. Non mi voltai affatto, ma scattai come una molla. Mi buttai al centro della strada e cominciai a correre come non ho mai fatto in vita mia. Sentii il fischio acuto di qualcosa che mi raggiunse e mi sorpassò: il gruppo alle mie spalle aveva aperto il fuoco dando così l’allarme. Gridavano e sparavano all’impazzata prendendomi di mira, ma nessuno aveva il coraggio di venirmi a fermare nel mezzo della strada. La mitragliatrice sul ponte, anche se silenziosa, attendeva ugualmente il mio ritorno.

Divoravo la strada inseguita da quel rabbioso tiro a segno, regolando la corsa sul ritmo di quella musica forsennata. Mi mancava poco ormai… Ancora due traverse, ancora una… I tedeschi si erano affacciati all’unica finestra che dava sul viale per seguire la scena… Li distinguevo già bene… Giunsi con il fiato grosso alla fine del viale, attraversai senza rallentare lo spazio davanti al cancello chiuso, mi arrampicai come una scimmia sulle sbarre dello stesso, puntai le braccia e saltai dall’altra parte.

Ricordai l’ultima raccomandazione del sergente («il ponte è minato»). Tenni la sinistra, rasentando poi verso destra il muro della casa, girai l’angolo e piombai come un bolide in mezzo ai soldati che mi aspettavano. Ero salva!
Mi accompagnarono a Villa Palmieri e di là verso Milano, ospite dei Tedeschi presso Bologna; attendevo la macchina del mio comando, ero in giardino a godermi il fresco, quando vennero a chiamarmi: avrei rivisto il Colonnello e i Camerati: finalmente!


Di Carla Costa

3 commenti

  • Un lato della storia italiana poco conosciuto. Ma non per questo privo di interesse. Anzi. Questo reparto di sole donne potrebbe benissimo divenire un film!!! Grazie Javier per queste piccole chicche…

  • Articolo sublime. Una chicca veramente.

  • Questa storia rende onore al coraggio, l’onore e al grande senso di patria che c’era nei giovani, cosa che oggi purtroppo non esiste più nella maggioranza .

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